“Pesca” Esselunga, non empatizziamo più neanche con una bambina

Non siamo più capaci di empatizzare. Nemmeno con una bambina che, nella sua ingenuità ed innocenza, sogna di veder tornare insieme i propri genitori separati. 

E’ questa la conclusione a cui si giunge dando un occhio agli inverosimili commenti negativi che “Pesca”, il nuovo spot di Esselunga, ha suscitato in una parte di Paese. Aimé proprio la parte che, un giorno si e l’altro pure, si riempie la bocca con la parola “empatia”.

La “trama” di “Pesca” è nota. Esselunga ci mostra una bambina che vive la delicata situazione di una famiglia con genitori separati. Un giorno, mentre è a fare la spesa con la mamma, decide di prendere una pesca. Quando nel pomeriggio arriva il babbo a prenderla glie la dona dicendo: “te la manda la mamma”. Il babbo intuisce trattarsi di una piccola bugia a fin di bene, eppure alla fine dello spot si volta verso la finestra della sua oramai ex, come se per un momento pensasse a come sarebbe tornare un’unica famiglia.

Cosa c’è di “sbagliato” in tutto questo?

Qualcuno ha polemizzato dicendo che lo spot “strumentalizza i sentimenti dei bambini”. Qualcun altro che “propone” stereotipi maschilisti “con mamma stronza, papà buono e figlia triste”. C’è persino chi ci ha visto un complotto del Governo Meloni, perché mostrerebbe solo “l’italico modello di famiglia tradizionale etero”.

Su un articolo di Vanity Fair si legge che “Pesca” ricalcherebbe “i peggiori luoghi comuni sulla separazione come momento drammatico”. Che la sua narrazione sarebbe “tossica” perché in realtà la separazione di una coppia sarebbe in molti casi una “liberazione”. Che una famiglia separata “può essere assai più felice di una claustrofobicamente, irrimediabilmente, violentemente unita”.

Ma la verità è che dietro tutti quei paroloni: “modelli”, “stereotipi”, “colpevolizzazione”. Dietro tutte quelle analisi fintamente profonde e fuori luogo, si nasconde una cosa sola: egoismo. Un “io” obeso, gigante. Più grande di un supermercato Esselunga.

L’io di chi ha una visione ideologica delle cose e non è più capace di comprendere che non tutto è fatto per fini politici. L’io di sedicenti femministe che bolla come “stereotipo” ogni aspetto della realtà che non piace. L’io, aimé, di qualche genitore che evidentemente è più preoccupato del potenziale giudizio degli altri sulle sue scelte che del bene dei suoi figli.

Alcuni di noi sono talmente infognati in certe narrazioni, certi schemi, certe paure personali, da non riuscire più a vedere chiaramente ciò che li circonda. Da essere diventati incapaci di astrarre anche solo per un momento da quel “io, io, io” che gli martella il cervello H24. Così alienati da vedere come una minaccia un banale spot pubblicitario. Da sentire odore di marcio persino nell’immagine del visino triste di una bambina. 

Il destino della società italiana, i “diritti” di presunte categorie oppresse, la fine delle discriminazioni, non dipendono dalla storia narrata da Esselunga. Ma dobbiamo chiedercelo: che destino possiamo avere come Paese se davvero c’è gente che alza la voce, sbraita e batte i pugni a destra e soprattutto manca perché convinta che rappresentare una bambina che sogna di veder tornare insieme i suoi genitori sia qualcosa di fascista?

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