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E se quello di Giulia Cecchettin non fosse stato un “femminicidio”?

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E se quello di Giulia Cecchettin non fosse stato un caso di “femminicidio”? Potrebbe sembrare una domanda provocatoria, a qualche giorno dai funerali della 22enne uccisa da Filippo Turetta. Ma non lo è. 

E’ arrivato il momento di proseguire quella riflessione accennata nello scorso articolo sulla presunta “emergenza femminicidio” in Italia. Emergenza che, ribadiamolo, dati alla mano si è rivelata infondata. 

Si procederà dunque ad un’analisi del significato e della definizione del termine “femminicidio”. Dopo di ché si faranno alcune considerazioni sul femminicidio come fenomeno, e, nello specifico, sull’omicidio condotto da Filippo Turetta.

Cosa significa “femminicidio”?

La prima cosa da dire è che il termine “femminicidio” non ha né un significato né un utilizzo univoco. E questo è un problema. La seconda, come vedremo, è che non è “neutro”. Ma questo è un problema, se vogliamo, relativamente minore.

Già solo in rete ci imbattiamo in varie “versioni” della parola. Il significato più comune è quello di “omicidio di donna in quanto donna”. Lo possiamo trovare declinato così in svariati siti sensibili al tema della violenza di genere e in pagine di giornale. Tuttavia è usato anche per intendere comportamenti non omicidi. Un buon esempio di questo ce lo fornisce Google. Se digitiamo infatti “femminicidio definizione” compare:

Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte.

Già qui ci sarebbe spazio per una piccola riflessione. Se infatti la parola “femminicidio” include “omicidio”, ovvero un termine molto specifico con cui, anche e soprattutto giuridicamente, indichiamo la soppressione di una vita, ci si chiede quale senso abbia usarla “metaforicamente” per intendere anche atteggiamenti negativi o comportamenti violenti verso le donne che non hanno a che fare con l’uccisione. Un senso ideologico forse? Ecco perché poc’anzi si è detto che la parola non è “neutra”. Ciò conta per adesso è sottolineare che, a questo modo, la parola può essere fuorviante.

Polivalenza o, se si vuole anche ambiguità, “femminicidio” ce l’ha avuta sin dalla nascita. Il termine deriva infatti da due parole, di origine straniera: “femicide” e “feminicidio”. Sebbene siano simili, anche queste hanno significati e contesti d’uso diversi.

A quanto si legge su alcune fonti, il termine “femicide” sarebbe stato introdotto da Diana E. H. Russell nel 1976. La scrittrice, sociologa e attivista femminista lo definiva come:

  • l’omicidio di una donna commesso da un uomo per odio, disprezzo, piacere o convinzione di possesso delle donne;
  • l’uccisione di una donna da parte di un uomo in quanto donna.

Invece il termine più simile all’italiano, “feminicidio”, è stato utilizzato dall’antropologa e femminista messicana Marcela Lagarde. Questa lo definiva come: 

  • la forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine, quali i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale, che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia.

Anche l’origine del termine mostra che la parola non è “neutra”. E’ stata coniata e usata in contesto di attivismo politico per i diritti delle donne.

Pur essendo diverse, entrambe queste definizioni convergono nell’identificare il “femminicidio” come motivato dal genere, ovvero condotto poiché la donna è una donna. In questo la definizione di Russell è chiara. E’ con ogni evidenza la sua quella più utilizzata dalle maggiori fonti in circolazione. La definizione di Lagarde fa invece emergere più esplicitamente l’aspetto politico-ideologico. Si nota infatti l’uso di parole come “diritti umani”, “livello sociale”, “Stato”, e via dicendo. Aggiunge anche l’elemento della misoginia. La si potrebbe riassumere così:

  • l’uccisione di una donna da parte di un uomo a seguito di varie violazioni dei sui diritti, mandate avanti dall’uomo per misoginia.

Abbiamo dunque compreso cosa significa “femminicidio”? Arrivati a questo punto alcuni direbbero di si. Ma invece ancora no, non ci siamo. In un certo senso è da qui che si comincia anzi. Perché è facile uscirsene dicendo che il femminicidio è “l’omicidio di donna in quanto donna”. Ma nel concreto cosa significa esattamente quest’espressione?

Tutto si gioca in questo apparentemente banale ma in realtà fondamentale nodo concettuale. Anche per quanto riguarda il caso di Giulia Cecchettin.

Per scioglierlo, un po’ ci può aiutare la definizione da Google, precedentemente riportata. “In quanto donna” sottintende il punto di vista sbagliato e discriminatorio di un uomo che, a causa di quella “sovrastruttura patriarcale”, vede la donna inferiore, non al suo pari. Per quanto riguarda forza, diritti, intelligenza, possibilità. E via dicendo.

Una riflessione sul sito de l’Associazione “Non Una di Meno” ci permette di comprendere meglio questo aspetto. Nel tentativo di discernere cosa sia un femminicidio e cosa non lo sia, un’attivista scrive infatti che per definirlo tale, il femminicidio deve avere a che fare col sessismo, e come movente il “potere patriarcale” dell’uomo sulla donna.

Alla sua base infatti vi sarebbe:

“[…] una forma specifica di dominio all’interno di un rapporto antidemocratico e anticostituzionale, dunque perseguibile e affrontabile politicamente oltre che giuridicamente”. 

Non a caso l’attivista esordisce nell’articolo con il titolo “Il femminicidio è reato politico“. E lo conclude dicendo che “quel che resta del patriarcato” va contrasto. Dai residui nel mondo del lavoro a “tutte quelle leggi tese a ribadire una inferiorità femminile che i fatti stanno da oltre due secoli contraddicendo clamorosamente. Si tratta, appunto, di POLITICA“.

Ecco ancora perché “femminicidio” non è un termine “neutro”. E’ invece afferente a un certo linguaggio e ad una certa visione politica. Questo sia nel senso che non è di natura scientifica o giuridica, e che quindi bisogna fare molta attenzione nell’usarlo, sia nel senso che il crimine che descrive deve avere una matrice “politica”. L’omicida deve uccidere “in nome” di quella “sovrastruttura ideologica patriarcale”. Altrimenti, stando a queste premesse, non siamo di fronte ad un “femminicidio”.

Facciamo dunque adesso due esempi generici di omicidio ipotetico:

  • un uomo torna dal lavoro e coglie in flagrante la moglie mentre lo tradisce con un amante, preso dalla rabbia la uccide;
  • un uomo non accetta che una donna sia stata promossa al suo posto per una certa posizione lavorativa, così la uccide;

Sono entrambi femminicidi? Stando alle premesse concettuali delineate fino ad ora no. Nel primo caso siamo di fronte a qualcosa di più simile ad un delitto passionale, in cui l’uomo, sentendosi tradito e umiliato, si vendica con violenza sulla moglie. Non vi è la presenza di una componente patriarcale nel movente. Nel secondo caso invece potremmo parlare di femminicidio. Poiché l’uomo non tollera che una donna, in quanto donna, sia stata migliore di lui in contesto lavorativo. Dunque la considera non al suo pari.

Il movente di Filippo Turetta

Arrivati a questo punto viene da domandarselo. E’ a causa della suddetta sovrastruttura ideologica patriarcale che Filippo Turetta ha ucciso l’ex fidanzata Giulia Cecchettin? 

Molto è stato scritto sui comportamenti morbosi e votati al controllo di Turetta. C’è stato chi si è gettato in ardite analisi psicologiche. E pure chi ha provato a delinearne il movente in termini “patriarcali”. Stando a quanto fin qui emerso dagli interrogatori, fra le cause del suo efferato gesto non sembra esserci una componente misogina, né una considerazione della donna come inferiore all’uomo. Né ancora il tentativo di ribadire o affermare simbolicamente un “potere patriarcale”.

Gli elementi costituenti il movente di Turetta sembrano più simili a quelli nell’esempio ipotetico di “delitto passionale” fatto precedentemente. Nello specifico: l’incapacità di razionalizzare la fine di una relazione, la gelosia e il desiderio di vendetta. 

C’è un aspetto in particolare nella vicenda che tuttavia potrebbe configurare l’omicidio della 22enne come un femminicidio. Il fatto che Turetta non fosse contento che Giulia Cecchettin si laureasse prima di lui. In molti infatti vi si sono soffermati e lo hanno preso in considerazione nell’analisi del movente.

A riguardo si è per esempio espressa la criminologa e psicologa Flamina Bolzan. Su il Tempo si legge che alla domanda sull’eventuale movente, ha risposto:

La laurea? Più che un movente è un elemento in più che ha fatto percepire a Filippo di essere rimasto un passo indietro. Parlerei di invidia per il traguardo raggiunto prima dalla ragazza che lo ha lasciato. Ma non riesco ancora a capire quale sia stato l’episodio dirimente che ha fatto scattare il tutto”.

Se l’omicida non tollerasse che Cecchettin, in quanto donna, lo superasse all’università, allora ci troveremmo chiaramente di fronte a un caso analogo a quello del collega di lavoro omicida, ipotizzato poc’anzi. Ma bisogna prestare attenzione.

Potrebbe infatti anche essere che tale scontentezza di Turetta non derivasse da una convinzione patriarcale di inferiorità delle donne. Ma piuttosto da un morboso amore per l’ex fidanzata, che lo portava a sognare un momento di laurea idealizzato all’inverosimile.

Conclusioni

Analizzate le definizioni ed il significato del termine “femminicidio” risulta non scontato che il caso di Giulia Cecchettin sia stato effettivamente un femminicidio. Solo un approfondimento delle indagini in atto e l’emersione di ulteriori dettagli potrà permettere di comprenderlo. Tuttavia, ancora una volta, risulta invece fondamentale un uso corretto e consapevole delle parole. Anche e soprattutto a livello mediatico e politico. Sarebbe infatti veramente il colmo se l’uccisione di Giulia Cecchettin, divenuta tristemente il simbolo del femminicidio a livello nazionale, si rivelasse non essere un caso femminicidio.

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