di Andrea Giustini
La caduta del Governo Draghi ha suscitato lamentose e scomposte reazioni da chi ne avrebbe invece voluto il proseguo. Sdolcinati e forzati appelli per un “remain” di “Super Mario”, da parte di associazioni, politici e quant’altro, si sono davvero sprecati nel corso di settimana scorsa. E a quel mugolio, solo in apparenza generale nel Paese, si sono uniti anche diversi fra i più importanti quotidiani italiani, con toni e narrazioni che in alcuni casi è sembrato stonassero con quello che normalmente dovrebbe essere il modus operandi dell’informazione. Certi giornalisti hanno pure ricominciato a parlare di presunto “populismo” in Italia: non risuccedeva dal tardo 2019, quando le “6000 sardine” guizzarono fuori dalle piazze di Bologna. La lettura della recente svolta politica maggiormente data dai quotidiani è proprio che un non meglio precisato “populismo” avrebbe vigliaccamente affossato il “Governo dei Migliori”. Si riportano i più importanti esempi di titoli e articoli comparsi nelle prime pagine di giovedì 21 luglio, giorno successivo alla mancata fiducia al Governo Draghi.
Il Corriere della Sera ha aperto con un triste “Addio al Governo Draghi” e lo ha incorniciato con diversi articoli dal tono emotivo: “Europa incredula: giù la Borsa risale lo spread”, “Urla, tradimenti: il giorno della follia”, fino al “Travolti da un insolito destino” di Gramellini, caffè che ha messo ironicamente in relazione il riscaldamento globale con le scelte di Salvini e Conte, sintomo, anche qui, “dell’impazzimento della politica italiana”. Si passa poi a la Repubblica. Sotto un’immagine di Draghi in una posa a mezzo fra il triste e l’infastidito, il quotidiano ha titolato come indignato: “L’Italia tradita”. Ma è la Stampa ad esser stato il più esplicito. In prima pagina ha scelto di far giganteggiare un “Vergogna”, accompagnato in bella vista prima da un pezzo Marcello Sorgi, che narrava di “partiti che giocano” e dell’Italia che, per colpa loro, nel frattempo “affonda”, e poi da quello di Lucia Annunziata: “Quei vigliacchi del draghicidio”.
Anche giornali minori sono da segnalare per i toni raggiunti. Fra quelli che hanno espresso disappunto per la fine del Governo Draghi e quelli che hanno voluto comunicare un senso di vuoto o pericolo, spiccano:
- Milano Finanza, per cui ora “L’Italia è senza paracadute”;
- Il Giorno, con “L’ora più buia”;
- L’Eco di Bergamo, che ha parlato apertamente di “Follia al Senato”;
- Il Giornale di Brescia, che ha pubblicato “La Caporetto del buonsenso per una politica irresponsabile”;
- La Gazzetta di Parma, che, come si trattasse di una partita, ha titolato “L’Italia fa autogol”;
- Il Corriere Trentino, che ha paventato una preoccupazione generale da parte del tessuto socio-economico: “Draghi cade: imprese sconcertate”.
Forse il giornale minore che ci è andato giù più duramente è il Quotidiano del Sud. In primis ha titolato minacciosamente “Chi affossa il Paese non verrà perdonato”. Poi che “Draghi col suo linguaggio della verità ha spaccato i partiti”. E addirittura che “Non l’Italia ma anche l’Europa avrebbe bisogno di un Super Mario”.
L’aspetto che unisce praticamente tutti questi giornali, oltre che la medesima cantilena per la fine dell’esecutivo di Mario Draghi, è che sono improvvisamente tornati a parlare di “populismo”: lo si nota sin dalle prime pagine. Il Corriere, subito sotto il lacrimoso “Addio”, ha posto “Il No Populista”, articolo dove Massimo Franco parla di “una nemesi” populista responsabile della caduta del Governo Draghi. La Repubblica ha utilizzato lo stesso schema: il primo articolo apparso sotto quel “L’Italia tradita” è proprio “L’aula vittima del Populismo”, editoriale di Maurizio Molinari. Il direttore, oltre ad aver esplicitamente decantato le imprese del Governo Draghi, ha descritto quella del Movimento 5 Stelle, di Forza Italia e della Lega come una “scelta politica miope”, che nuocerebbe “all’interesse nazionale”: una “tempesta perfetta”. La parola “populismo” nella sua versione dell’attuale situazione italiana, si mischia torbidamente ad un’altra che allo stesso modo da tempo non veniva più usata: “sovranismo”. Non viene spiegato cosa siano esattamente questi due fenomeni, o se effettivamente siano la stessa cosa: si dà solo a intendere che sono qualcosa di pericoloso. Naturalmente anche La Stampa si è unita al coro “pericolo populismo”: “Matteo, Giuseppi e l’asse populista” di Annalisa Cuzzocrea era stampato in prima pagina, rinvenibile in versione online anche come “L’Eterno ritorno dei Populisti”.
Va sottolineato che i termini “populismo” o “populista” sono prettamente denigratori. L’uso facile e mediatico che se ne fa oggi non incorpora in realtà alcun contenuto politico-concettuale: queste parole hanno anzi perso qualsiasi legame col significato che in origine avevano, quello storico-scientifico. Quando si dice che in Italia vi sono forze politiche “populiste” non le si sta davvero descrivendo, le si sta solo criticando, o per meglio dire delegittimando. Non è come dire, ad esempio, che in Europa ve ne sono di “social-democratiche”. In questo caso l’espressione si riferisce a un insieme preciso di principi e ideologie, intellegibile a tutti, che qualifica chi vi viene associato. Ciò non avviene per “populista” che al contrario evoca solo un miscuglio di emozioni e stereotipi a carattere spregiativo, inutile a informare su quali posizioni politiche abbia un certo politico o partito, ma molto efficace per farlo apparire a priori come inadeguato: brutto e cattivo. In definitiva quella del “populismo” non è davvero una categoria politica. Piuttosto è una categoria “narrativa”, che all’occorrenza viene usata per dare a lettori od elettori un’immagine negativa di chi ci viene etichettato: di minaccia ora per la democrazia, ora per la Costituzione, ora non si sa neanche per cosa. In generale di demagogia.
Fino a poco tempo fa nessun giornalista si sarebbe sognato di tacciare di “populismo” Lega, M5S e le variegate componenti l’ex Governo Draghi. Tutte, con solo qualche scontata differenza di narrazione, ricevevano dai media quella minima considerazione per essere inquadrate come forze politiche legittime. Magari non piacevano a chi ne parlava dai paragrafi dei maggiori quotidiani, ma erano comunque “degne”, perché colonne necessarie a far stare in piedi l’edificio governativo Draghi. Adesso che invece quelle stesse realtà politiche hanno scelto di farlo crollare è come se fossero state nemicizzate, poste fuori dallo spazio del “civile” ed “accettabile”, retrocesse a un livello sub-politico: inferiore.